In collaborazione con il Dott. Alessandro Volta,
pediatra presso l’Ospedale Franchini
di Montecchio Emilia (RE)
Rooming-in* o no?
Come per il sonno, per l’allattamento e per altri mille percorsi legati alla maternità e alla nascita, tutto è sempre soggettivo e legato a fattori e circostanze che si inseguono e si allacciano.
Con Matteo il rooming è stata un’esperienza meravigliosa.
Quella prima alba abbracciati è una lettera scarlatta del mio essere madre.
Nelle ore dopo la nascita, Matteo era tranquillo. Io non dormivo da 3 giorni, ero adrenalinica e continuamente controllavo se respirava.
La seconda notte, quando si è addormentato, l’ho allungato al nido (senza per questo sentirmi una madre degenere) per un paio d’ore e sono sprofondata in un sonno rigenerante.
Con Niccolò il rooming è stata un’esperienza faticosa.
Niccolò ha iniziato a urlare come un ossesso appena uscito dall’utero e ha smesso a dieci mesi.
Intendiamoci, io l’avrei comunque tenuto con me, però se avessi potuto avere il conforto di qualcuno del nido, forse avrei iniziato a piangere un pochino dopo invece che la notte stessa del parto.
Ricordo che entrò un’infermiera in stanza. Erano le 3 del mattino. Aprì la porta e disse: “ma cosa succede qui dentro?” “piange” “Ah beh, allora tutto ok. Controlla se ha fatto la cacca”. E se ne andò.
Nel momento in cui tu entri in una stanza di una puerpera alle 3 del mattino per chiedere “cosa succede?”, significa che riconosci un’eccezionalità e una stranezza in un pianto ininterrotto e disperato. E allora dovresti entrare proponendo qualche soluzione o offrendo un aiuto il più possibile concreto. O no?
La seconda notte (terza in bianco, con un travaglio e un parto all’attivo, e 30 ore di urla nei timpani), mi affacciai timidamente al nido per chiedere se potevo lasciarlo mezzoretta (stava finalmente dormendo). “Signora, no, piange troppo”.
Io trovo il rooming assolutamente fisiologico.
È una declinazione della demecalizzazione della nascita, è nella natura felina di una madre volere il suo cucciolo indifeso accanto.
Però un rooming con un bambino tranquillo non è la stessa cosa che un rooming con un bambino che urla disperato, soprattutto se si è primipare e piene di paure.
Un rooming-in in un clima sereno, che offra al neonato la possibilità di studiare il corpo della mamma, di guardarla negli occhi senza disturbo, di attaccarsi al seno e di sentirsi tranquillo, non è la stessa cosa che un rooming obbligato in una stanza con altre 3 donne, altrettanti papà e un ininterrotto via vai di amici e parenti.
Io penso che la struttura ospedaliera che decide per il rooming-in, debba per prima cosa attrezzasi affinché la degenza delle mamme sia tale da vivere il rooming come andrebbe vissuto e cioè con serenità.
Ma dove stanno la spontaneità e l’intimità in uno stanzone con 15 persone che entrano, escono, urlano, mangiano?
Anche su questo tema, ho trovato interessante e illuminante un articolo del Dott. Alessandro Volta che pubblico di seguito.
Rooming-in, insieme dall’inizio
Quando è cominciato il rooming-in e chi lo ha inventato?
La prima domanda ha una risposta facilissima: il rooming-in è nato circa 100.000 anni fa durante il pleistocene.
In quegli anni si partoriva nelle caverne, con poca igiene e molta scomodità; la mamma scaldava il neonato col proprio corpo e lo nutriva per 3-4 anni col proprio latte.
Successivamente ci è stato tramandato un altro rooming-in che inizialmente era programmato in una locanda della Palestina, ma per problemi tecnici è poi avvenuto in una mangiatoia; come oggi anche in quell’occasione l’arrivo di visitatori (i pastori), ha impedito di mantenere nella stanza la tranquillità e la privacy necessarie dopo un parto (n.d.r. 2.000 anni sono passati invano?).
Nei secoli successivi si è continuato a partorire in ogni luogo, ma la mamma e il bambino rimanevano insieme per tutto il puerperio.
È stato solo negli ultimi cinquant’anni che, spostando il parto in ospedale, si è cominciato a pensare che la mamma e il bambino potevano essere separati. Nella visione scientifica della nostra medicina moderna la mamma che partorisce ha necessità assistenziali specifiche e il suo bambino deve essere accudito da personale specializzato.
Effettivamente questo modo di procedere ha permesso di ridurre enormemente l’alta mortalità della mamma e del neonato; all’inizio del ‘900 nel mondo occidentale morivano circa il 18% dei bambini nel primo anno di vita, oggi ne muore meno dello 0.5%.
Questo eccezionale risultato è stato possibile per l’uso degli antibiotici, per la capacità di valutare la sofferenza fetale e anche per la possibilità di nascere per via chirurgica in assenza di alternative. La prassi di mantenere il neonato in un luogo separato da quello della mamma non ha invece prodotto alcun beneficio sullo stato di salute del neonato.
Veniamo a questo punto alla seconda domanda: chi ha inventato il rooming-in moderno?
Un neonatologo francese, Pierre Budin, nel 1907 scrisse un articolo nel quale osservava: “le madri separate precocemente dai loro bambini perdono interesse per coloro che sono state incapaci di curare e nutrire“.
Durante la seconda guerra mondiale, a causa della carenza di personale, in alcuni ospedali si dovettero mantenere i neonati in camera con le mamme, così che potessero essere da loro accuditi e alimentati; ci si accorse che in questo modo la mortalità per infezione calava sensibilmente.
Dobbiamo però attendere gli anni ’70 per disporre di studi di psicologia neonatale in grado di evidenziare quanto sia importante per il benessere del neonato rimanere vicino alla propria madre. In particolare le ricerche di Winnicott e di Brazelton, hanno permesso di dimostrare che il rooming-in era la strada maestra per ottenere un efficace attaccamento madre-bambino. I vantaggi riguardavano anche la capacità di allattare e di accudire il neonato; a distanza di mesi chi aveva potuto seguire un regime di degenza assieme al bambino mostrava significativi benefici nella relazione con il figlio.
Lentamente si è iniziato a capire che il neonato sano non aveva bisogno di personale specializzato che se ne prendesse cura al posto della mamma; l’azione dell’esperto doveva invece aiutare la madre a sviluppare e a far emergere le innate e istintive competenze.
In futuro dovremo inventare strutture e schemi organizzativi sempre più orientati a favorire il legame madre-bambino.
In alternativa al portare a domicilio l’ospedale occorre impegnarsi per portare un po’ di casa in ospedale; il rooming-in andrebbe considerato come la fase iniziale, e per certi versi il fulcro, di questo necessario e importante percorso.
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*Rooming-in significa “dentro la stanza” e si riferisce alla pratica ospedaliera di tenere il neonato in camera con la propria mamma, anziché al nido.
Riferimenti
Siti
Nascere Genitori
Vocidibimbi
Libri
A. Volta, Nascere Genitori, Urra, 2008.
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