Ci sono luoghi talmente semplici e amalgamati nella natura che possono passare inosservati a uno sguardo poco attento, che vivono una vita delicata, in perfetta armonia con gli spazi che li circondano.
Ci sono luoghi che esistono anche grazie a mani esperte e sapienti che si adoperano per loro e che li rendono affascinanti, ma di un fascino spontaneo, ingenuo, fragile.
Sono spazi che occorre attraversare per poter riconoscere, sono luoghi che bisogna vivere per poter apprezzare. Sono luoghi che vanno respirati e ascoltati, semplicemente.
Il Giardino di Gabrina è uno di questi posti, un orto caratterizzato da erbe aromatiche ed officinali, nato nel 2012 grazie al progetto “I Reggiani per esempio” e curato dalle mani e dall’ingegno di volontari delle associazioni “Gramigna” e “Acque Chiare – Bazzarole”. È uno spazio contenuto, raccolto, nella zona del Parco della Acque Chiare, continuamente attraversato da miriadi di persone che durante la giornata passeggiano, corrono, si fermano per una riflessione, o per annusare i profumi emanati da tutte le piante che animano l’orto.
È un luogo magico come l’aura di mistero, scambiato per stregoneria, di colei che al giardino ha dato il nome: Gabrina Degli Albeti, la più famosa erbaiola e guaritrice reggiana, accusata di stregoneria sul finire del 1300. Ma il Giardino non fa paura, tutt’altro. Di questa triste storia che ha coinvolto la sua protagonista, rimane solo un senso di magia, di sospensione.
Quando si arriva al Giardino di Gabrina è sufficiente portare con sè una giusta dose di curiosità per le cose semplici, insieme ad una buona quantità di rispetto per tutta la vita che nel giardino si incontra, ma che bisogna avere cuore per vedere davvero.
E in una sera di settembre, in una delle ultime sere di Restate 2017, il giardino ci ha accolto silenziosamente, rispettosamente, e insieme a noi ha raccolto le storie in musica di un trio di musicisti bravissimi, che con lo stesso garbo hanno fatto vibrare ogni singola pianta, ogni piccolo fiore, e tutte le foglie ancora indecise a lasciarsi morire per il benvenuto all’autunno.
Il sole ha illuminato i primi accordi, ha scaldato la voce di Carlo che ha iniziato a sussurrare le prime parole, accompagnato dal flauto traverso di Mario e dalla chitarra di Ugo. Quattro strumenti che magicamente si sono fatti uno, e che hanno riempito ben più e ben altro delle orecchie di noi spettatori. In una cornice che pian piano ha ceduto il passo a colori sempre più scuri, e a sagome sempre più lunghe e meno definite, tutto quello che i nostri occhi hanno gradualmente potuto percepire è stata l’oscurità, illuminata solo dalla musica. Nessuno vedeva più, ma ognuno sentiva nascere nei confronti dell’altro fiducia e partecipazione.
I Lùv hanno permesso questa compenetrazione di storie e di esistenze, perché è propria della loro musica, un progetto fatto di narrazioni in musica sospese fra suggestioni letterarie, cantautorato e sonorità folk. Loro hanno preso per mano il pubblico e lo hanno fatto partecipare a “le prove all’aperto” perché in un contesto di quel tipo non se la sono sentita di parlare di concerto. È lì, nella natura, in un faccia a faccia con i fatti essenziali della vita, Gabrina ha siglato ancora una volta l’accordo tra natura e uomo.
Gabrina, ogni anno a distanza di secoli, continua a fare le sue stregonerie: ha diffuso nell’aria il profumo delle piante e delle erbe officinali per trafiggere l’olfatto e alleggerire la mente, ha spento il sole e acceso un quarto di luna per offuscare la vista e rendere più sensibili le orecchie, che così hanno accolto ogni singola nota dei Lùv, e ognuno ha potuto portare con sé un piacevole senso di pienezza.
Sara Marangoni
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