Torno a raccontare la storia di qualcuno. Qui è dove spiego il perché mi piace ospitare storie e che tipo di storie amo.
Lei si chiama Giovanna Rossi. È una mamma. Mi ha colpito la sua energia. Non si può tenersi la bellezza, la bellezza va condivisa. Ecco perché l’ho intervistata.
Sei una mamma di (quasi) 40 anni, hai due bambini di 10 e 8 anni, vivi a Reggio Emilia, fai sport, scrivi: quante affinità, Giovanna!
Questa cosa mi fa piace tanto! Sono a Reggio Emilia da meno di 2 anni, un po’ spaesata dal punto di vista delle amicizie e delle relazioni. Anche io da grande volevo fare la giornalista e l’ho fatta per tanti anni in gioventù. Mi piace soprattutto perché lego più facilmente con mamme che hanno passioni e interessi simili ai miei. Mi sento prima di tutto donna e devo dire che il “mestiere” di mamma è sempre stato uno dei tanti! Forse il più entusiasmante e impegnativo, l’unico che davvero ti cambia la vita, ma non totalizzante. Direi che mi sento proprio anche io una mamma imperfetta.
“Dal quel giorno in cui mi sono svegliata dopo la prima operazione con l’unica certezza di muovere ancora mani e piedi sono passati 4 anni e un secondo intervento, ma oggi prendo in braccio mio figlio (che ora ha 8 anni) tutte le mattine per farlo scendere dal letto a castello (è un gioco tra noi e un bel modo per iniziare la giornata), porto la spesa per 5 persone facendo due rampe di scale e sto preparando il mio primo triathlon”. La tua storia mi ha molto colpito: ce la racconti?
Quando avevo circa 12 anni mi hanno diagnosticato una scoliosi, nel giro di pochi mesi ero sviluppata repentinamente e il medico notò che c’era qualcosa che non andava. Lastre, ortopedico e iter di allora (quasi 30 anni fa…): busto ortopedico e piscina. A quei tempi così si curava la scoliosi, credendo che bloccandola entro certi limiti fino alla fine dello sviluppo osseo si sarebbe contenuto e limitato il danno. Ho portato quindi il busto giorno e notte fino ai 17 anni con sacrifici immensi e non pochi disagi psicologici (fra l’altro portavo contemporaneamente apparecchio ai denti e occhiali, vi lascio immaginare!). Una volta tolto il busto, diciamo che non ci ho pensato più finché verso i 25 26 anni ho iniziato ad avvertire forti mal di schiena.
La scoliosi non si era bloccata e anzi progrediva di circa 1 grado all’anno.
I medici (fisiatra e ortopedico) che mi avevano in cura a Cesena, però, sostenevano che ci fosse poco da fare e davanti ai miei timori per una futura gravidanza rispondevano sereni “Signora… se ha mal di schiena starà a letto!”. Così a 28 anni rimango incinta di Margherita, la gravidanza tutto sommato va benone, ma il parto è uno strazio a causa di fortissime fitte alla schiena che mi impediscono di gestire bene il travaglio e mi costringono a letto (se tentavo di stare in piedi o in altra posizione più consona la gambe cedevano miseramente). Così quando rimango incinta di Alberto a soli 12 mesi dal primo parto, mi viene il panico e cerco un medico che mi faccia le carte per il cesareo. In questa ricerca incontro un ottimo neurochirurgo (Dott. Roberto Donati) che, appena viste le mie lastre, mi dice di sottoporre il mio caso, che è serio e complesso, ad uno dei centri specializzati in chirurgia del rachide. Finisco quindi a Padova dal professor Fabris, il quale impassibile, dopo aver visionato la mia documentazione, sentenzia: “Il foglio per il cesareo non glielo faccio, ma lei battezzi il bambino e poi corra ad operarsi!”. Ovviamente ero sconvolta. Alla mia richiesta di spiegazioni, mi fa capire che l’urgenza di operarmi era massima perché la mia scoliosi era progressiva e sarei finita in sedia a rotelle prima dei 50 anni. Dovevamo intervenire il prima possibile.
A gennaio del 2007 è nato Alberto, il parto è stato migliore del primo fortunatamente, ad aprile sarei dovuta tornare dal medico per pianificare l’intervento ma il padre dei miei figli il 18 maggio è andato via di casa e io ovviamente ho passato mesi d’inferno.
Appena recuperate parzialmente le forze a gennaio del 2009 sono stata operata. Intervento lungo e complesso, 12 ore e più di sala operatoria, in cui mi hanno raddrizzato la colonna vertebrale e inserito due barre di titanio (fissate con una ventina di viti e bulloni) settimane di preparazione con autodonazione del sangue e un consenso informato da far accapponare la pelle per le 1000 possibilità che c’erano che qualcosa andasse storto. I possibili effetti collaterali di un intervento sulla spina dorsale vanno dalla paresi alla morte.
L’intervento riesce bene ma mi costringe a 10 giorni di ospedale lontano dai miei bimbi, tanto dolore e a mesi e mesi di riabilitazione, passati a casa dei miei genitori per il bisogno di assistenza continuo mio e dei bambini. Il 1 settembre ho ricominciato a vivere nella mia casa sola con loro, una conquista che ancora oggi mi commuove a ripensarla. Da quel momento ho dovuto ricominciare a camminare e a vivere da sola in tutti i sensi, ho dovuto combattere con nuovi limiti e un nuovo desiderio di superarli.
Un paio di anni fa durante un controllo ordinario mi hanno detto che occorreva un secondo intervento per correggere un’asimmetria che avrebbe a lungo andare compromesso le anche. Per me è stato uno shock peggiore del primo perché stavo bene e perché conoscevo il dramma di un intervento di questo tipo e perché stavo pianificando il mio trasferimento a Reggio Emilia. Ovviamente non avevo scelta e ad ottobre del 2012 ero di nuovo sotto ai ferri. Questa volta avevo un corpo in forma e soprattutto un uomo (Gabriele il mio attuale compagno) che era lì al mio risveglio e che mi ha accudito giorno e notte, oltre ad avermi aiutato professionalmente (è un preparatore atletico) prima e dopo l’ospedale.
Ad agosto 2013 ho affrontato il trasloco di due case nella mia attuale di Reggio Emilia, con tutte le questioni logistiche che spostare un’intera famiglia porta con sé.
“Ho imparato però che l’invalidità è uno stato mentale e per questo può appartenere a chiunque. E come ogni cosa che ci viene assegnata dalla vita ne possiamo fare ciò che vogliamo. Sta noi scegliere se farne un alibi o un motivo di riscatto”.
Si nasce con la capacità di guardare il bicchiere mezzo pieno oppure la positività si impara?
Io non sono nata con la capacità di vedere il bicchiere mezzo pieno, anzi… Ho avuto un’infanzia abbastanza complessa di cui preferisco non dare i dettagli ora (prima o poi il blog parlerà anche di questo lo so… ma oggi non è il momento) e ho sempre avuto la tendenza al pessimismo. Fino a una decina di anni fa ero molto religiosa e questo da una parte mi ha aiutato, ma dall’altro è stato un grande limite al mio riscatto. Poi ho perso la fede e allora ho iniziato a lavorare su di me. Man mano però che la vita mi metteva alla prova paradossalmente ho iniziato a vedere sempre meno nero. Devo confessare che negli ultimi anni ho incontrato persone che più o meno consapevolmente mi hanno aiutato ad allenare il corpo e la mente. A lavorare sulle mie risorse, a utilizzarle al meglio, a non trovare scuse, a darmi degli obiettivi e lavorare per raggiungerli. Chiaro che anche io ho dei momenti di sconforto, attimi di paura, periodi difficili, ma devo dire che ora so che sono in grado di superare qualsiasi difficoltà, devo solo trovare il modo.
Lo sport è…?
Per me lo sport è una forma di espressione e insieme di introspezione. In questo momento non potrei vivere senza lo sport, io che sono sempre stata una di quelle meno ginniche tra gli amici. Diciamo una riflessiva, studiosa, allegra sì, ma pacata…con la passione dei viaggi e della montagna, una grande lettrice, ma mai una sportiva. Attraverso l’allenamento ho scoperto una dimensione nuova, ho scoperto la disciplina su se stessi, ho scoperto l’attenzione al proprio corpo, alla sua salute e efficienza prima che all’estetica. Ad ascoltarne i limiti e a capire quali superare (quasi tutti) e quali custodire (alcuni come sentinelle preziose). Credo nello sport che insegna la fatica, la lealtà, il rispetto. Mi piacerebbe che lo sport così inteso fosse uno dei cardini della nostra società, purtroppo non è così.
“46percento” è il tuo blog: come è nato? Perchè scrivi?
46pecento è nato da una passione antica e da una recentissima. Quella antica è la passione per la scrittura. Scrivo da sempre, ho iniziato col giornalino del liceo, sono passata per una laurea in lettere e confluita professionalmente nel grande “calderone” della comunicazione e del marketing.
La passione recente è quella per lo sport, che è stato il pretesto per iniziare. In realtà sono una di quelle a cui tutti hanno sempre detto: “Dovresti scrivere un libro sulla tua vita!” Credo che 46percento sia l’inizio. Lo sport come dicevo è un pretesto. Quello che mi piacerebbe è che le cose che ho imparato superando mille difficoltà potessero essere utili ad altre persone. Condividere emozioni, pensieri ed esperienze è per me fondamentale. Ogni volta che ricevo un commento sul blog o una mail provo una grande emozione.
Perché il nome “46percento”?
46percento è il mio grado di invalidità. Il punto in cui tutto si poteva fermare, invece tutto è iniziato.
Tu hai due figli tuoi e una “stepdoughter”: cosa significa vivere in una famiglia allargata? Che mamma sei?
Questo è uno dei temi che sta passando al momento in secondo piano nel blog, ma è uno dei punti cardine della mia vita in realtà. La sfida di una famiglia allargata è avvincente, sicuramente non semplice. Ci sono volte in cui organizzare la vita pensando a 3 famiglie (la nostra e le due degli altri rispettivi genitori) sembra un’impresa impossibile. Ma alla fine con impegno e collaborazione (che non è affatto scontata dall’altra parte) si riesce anche in questa impresa. Ovviamente i rapporti famigliari sono da allenare ogni giorno, perché a quelli ancestrali si uniscono quelli creati dalla situazione, con qualche conflitto naturale.
Io ho due bambini: Alberto di 8 anni e Margherita di 10, il mio compagno ne ha una Matilde di 8 anni, che vive con noi a giorni alternati. I miei figli hanno altri due fratelli più grandi, nati dal primo matrimonio del loro padre.
Quindi ci sono le dinamiche dei fratelli, dei quasi fratelli, dei non fratelli, quelle genitoriali, quelle da “terzo genitore”. Apparentemente un caos. Credo che sia un allenamento importante per tutti. Siamo tanti, dobbiamo collaborare, dobbiamo rispettare non solo tutti i membri della nostra famiglia, ma anche quelli delle famiglie dell’altro genitore. Dobbiamo esprimere ciò che pensiamo ma accettare e rispettare il pensiero altrui. Ci proviamo!
La bellezza è vedere i legami che si creano e che non sono affatto scontati, sentire Matilde che mi dice “Il dentino Giò toglimelo tu!” o Alberto che cucina con Gabriele.
In tutto questo sono una mamma un po’ spartana. Non ho mai avuto l’indole della casalinga e i miei bambini raramente sono in ghingheri. Non sono apprensiva e tendo piuttosto a colpevolizzare che giustificare i mie bambini. Per certi versi sono in controtendenza. Credo che le cose se le debbano guadagnare, non il mio amore, certamente, ma il resto sì!
Mi piace molto fare delle cose con loro, far vivere delle esperienze. Adoro quando mi fanno delle domande, quando mostrano di essere curiosi verso il mondo. Man mano che crescono mi diverto sempre più a vedere le loro personalità che si formano, che si definiscono. Godo quando mi accorgo che sanno già più cose di me in alcuni campi…
Ah… abbiamo anche un cane, 5 cavie e da qualche giorno 5 girini. Vi prego non chiamate la neuro!
Il tuo sogno ha un nome?
Il mio sogno oggi si chiama triathlon. Mi sono innamorata di questo sport lo scorso anno, dopo averlo odiato profondamente mentre il mio compagno Gabriele si allenava per il suo esordio. Poi però il giorno della sua gara c’è stata la folgorazione.
Il triathlon è una sport impegnativo (nuoto, bici, corsa), che ti costringe ad allenamenti seri su tre discipline e partire da 0 nelle mie condizioni era una follia. Ma più le cose sono folli più le sento fatte per me.
Ho la fortuna di essere allenata da Gabriele, che è un professionista, e nel tempo di aver incontrato amici che praticano questo sport e che mi elargiscono consigli e sostegno. Il mio obiettivo è diventare finisher di un triathlon sprint (750 m di nuoto, 20 km di bici, 5 km di corsa) il 3 ottobre a Riccione. Parto da una distanza moderata perché le mie condizioni fisiche mi rendono molto difficile correre e quindi la corsa diciamo che limita un po’ tutto. Per ora, dopo 30 settimane di allenamento sembra che tutto vada per il meglio e posso dire di aver almeno verificato di poter raggiungere questo primo obiettivo. Chiaro che ancora non ho mai nuotato in mare e mai indossato una muta.
Se vi interessa sapere se mai ce la farò, o ridere con me delle mie fantozziane difficoltà, vi aspetto sul blog!

veramente complimenti …..una forza da invidiare…….
veramente grande donna!!!
veronica