Uscire dalla comfort zone serve sempre ad aprirsi a diversi livelli di pensiero e a contaminarsi un po’: ecco perché noi, dopo la domenica trascorsa al Picnic Festival, tra gli innumerevoli eventi del cartellone di #Restate2016, abbiamo scelto di partecipare a una commedia dialettale in uno dei quartieri più storci di Reggio Emilia.
C’è anche un altro motivo per cui la scelta è caduta sul teatro, anzi due: Matteo, mio figlio più grande, recita con grande passione e soddisfazione (qui 40′ di un suo spettacolo) da un paio d’anni e mia madre ha recitato per tanti anni, sia da bambina che da ragazza, proprio in una compagnia dialettale.

Matteo e la sua compagnia durante il loro ultimo spettacolo
Recitare è comunicare. E recitare in dialetto è comunicare ancora più trasversalmente: attraversare generazioni e culture e parlare a tutti. Con semplicità. La commedia dialettale vive di situazioni “quotidiane”, momenti condivisibili e personaggi lineari, senza tormenti. Soggetti modesti che per due ore ci distolgono dalle preoccupazioni del fare.
La facilità di immedesimazione è il fulcro delle commedie dialettali. Sono per tutti. Persone culturalmente vivaci e non. Racconta spesso mia madre che gli stessi attori, bravissimi, nella stragrande maggioranza non avevano frequentato le scuole.

Mia mamma durante una commedia dialettale.

Mia madre ha iniziato a recitare fin da bambina. Qui, è la piccoletta della compagnia.
Il dialetto è una storia. Siamo noi. Bambini e anziani. È la forma espressiva di tutti.
A portarlo in scena mercoledì sera Enzo Fontanesi e Sara Simonazzi in “Ma lèsa c’la vaga” una commedia che, come si diceva, racconta il fare quotidiano di una famiglia alle prese con bollette da pagare, matrimoni di vecchie zie e amici in cerca di lavoro.

Ma lèsa c’la vaga – Commedia comico – dialettale in due atti con Enzo Fontanesi e Sara Simonazzi
Li ho trovati seduti a un tavolino, concentrati sui copioni e, naturalmente, non ho potuto evitare di rubare i preziosi minuti prima di andare in scena. Poche battute, un rapido excursus sul teatro dialettale reggiano e una domanda che mio figlio mi aveva chiesto di fare: chi scrive i copioni e come? “Scrivo i copioni in italiano – risponde Enzo – ma Sara li legge meglio in dialetto, un dialetto che è abbastanza italianizzato perché alcuni termini puri non si usano quasi più”.
Lo spettacolo ha animato il quartiere Orologio, una zona di Reggio Emilia con una storia che parla di volontariato e passione e che tuttora vive ed è alimentato dall’impegno spontaneo di un gruppo di cittadini “guidati” dal Presidente del Circolo, Villiam Orlandini, energia, voglia di fare, entusiasmo e valori. Il teatro del Piccolo Orologio si porta dietro la profonda cultura di servizio e gratuità tipica di Reggio Emilia. Nasce all’interno del Casino dell’Orologio uno spazio fortemente amato e desiderato dai cittadini del quartiere che nel 1978, occuparono simbolicamente struttura chiedendo che venisse trasformata in spazio culturale e ricreativo. Per accelerare i lavori centinaia di persone si misero gratuitamente all’opera e nel 1981, da un vecchio fienile, ricavarono questo piccolo ma grande teatro, oggi gestito con qualità, vivacità e grande impegno, anche civile, dall’associazione MaMiMo.
Un piccolo, grande teatro, grande come tutto ciò che nasce dai desideri comuni e da un cooperazione vivace di fatiche e condivisione.
Il quartiere Orologio oggi è paradigma di sviluppo sociale: si cresce lì dove si stimola la vivacità e la condivisione di luoghi fisici che diventano piazze di storie comuni e incroci preziosi di differenze.
Ci siamo molto divertiti, il teatro ha davvero qualcosa di magico, che emoziona anche quando fa ridere. C’erano bambini, ragazzi, famiglie, anziani, amici e passanti. Un circolo di quartiere da 0 a 90 anni di persone che vivono e partecipano alla vita dell’Orologio in armonia.
Cos’è un centro sociale di quartiere? Tutta questa bellezza di generazioni che si contaminano. #Restate2016 pic.twitter.com/v1iyeZCuQb
— Silvia Sacchetti (@MammaImperfetta) 29 giugno 2016
Che meraviglia, a Reggio c’è un Orologio che ferma il tempo. #Restate2016 https://t.co/l1hVvYQ1H1
— Alfredo Colella (@alfcolella) 29 giugno 2016
Non sapendo che lo spettacolo fosse all’aperto, avevo chiesto di poter seguire i due attori dietro le quinte. Anche per mostrare a Matteo cosa siano le “quinte”. Lui ha portato in scena due rappresentazioni in questi anni ma mai a teatro. Le quinte sono mistero. Lì, gli occhi del pubblico non possono arrivare. Sia che danzi, sia che canti, sia che reciti. Le quinte sono il rifugio di chi va in scena. Il termine “teatro” significa “luogo degli sguardi” ecco perché le quinte sono un luogo di riposo, nonostante lì dietro, si lavori moltissimo. Dietro le quinte si chiudono gli occhi del pubblico.
Lo spettacolo era all’aperto e le quinte tradizionali non c’erano, ma per lui, anche scorgere una manica che sbucava da dietro il muro è stato scoprire la parte di teatro che gli mancava: “Mamma, guarda, si vede un braccio!”.

Le “quinte”. Dove si fermano gli sguardi.
La bravura di Enzo e Sara? Giudicatela voi, se riuscite a capire quello che dicono! 😉
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